Una zampa leggera nella polvere dorata. Un'impronta che appartiene a due mondi. Occhi che riflettono sia il sole accecante del deserto che la luna sussurrante dei misteri. Bastet non è mai stata solo una divinità – è sempre stata un paradosso che respira.
Nei templi dell'antico Egitto, il suo nome veniva sussurrato con riverenza mista a timore. Non perché fosse crudele, ma perché era imprevedibile – come solo un gatto sa essere.
Prima che il tempo la trasformasse nella familiare dea dalla testa di gatto domestico, Bastet mostrava il volto di una leonessa. Selvaggia, terribile, portatrice di tempeste. Sorella e riflesso della sanguinaria Sekhmet, era venerata e temuta nelle terre del Delta.
Il passaggio da leonessa a gatta non fu una semplice evoluzione iconografica. Fu la cristallizzazione di una verità che ogni amante dei felini conosce: la più piccola gatta domestica contiene in sé tutta la ferinità del deserto. Nei suoi occhi, quando si dilatano nell'oscurità, brilla ancora lo sguardo del predatore primordiale.
Gli egizi lo sapevano. Per questo, nei secoli, Bastet divenne la custode perfetta della duplicità: protettrice del focolare domestico ma anche guerriera implacabile contro le forze del caos; portatrice di fertilità e gioia ma anche capace di artigliare il cuore del nemico.
Non è stata addomesticata. Si è semplicemente rivelata più complessa di quanto potesse essere contenuto in una singola forma.
A Bubastis, la sua città sacra nel Delta del Nilo, i pellegrini arrivavano a migliaia. Le celebrazioni in suo onore erano le più rumorose e gioiose dell'Egitto, secondo quanto racconta Erodoto. Musica, danza, vino – un'esplosione di vita in onore della dea della gioia.
Eppure, al centro di questo tripudio, nel cuore del suo tempio, regnava un silenzio assoluto. Lì, nella penombra illuminata solo da lampade a olio, centinaia di gatti sacri dormivano, giocavano, osservavano. Il loro movimento era preghiera. Il loro respiro, incenso.
I sacerdoti scrutavano i loro movimenti, cercando messaggi divini. Ma forse la vera comunicazione avveniva nell'altra direzione: erano i gatti a osservare gli umani, studiandoli con quell'attenzione distaccata e curiosa che solo i felini sanno avere. Giudicando, forse. O semplicemente esistendo in una dimensione che sfiorava la nostra solo per caso.
Nella mitologia egizia, Bastet rappresentava l'occhio di Ra che vede ciò che agli altri è nascosto. Non è un caso che i gatti vedano al buio – la loro pupilla è una porta tra mondi, proprio come quella della dea.
Cosa rende Bastet tanto potente come simbolo, tanto evocativa come presenza? La sua capacità di esistere negli interstizi, di abitare le contraddizioni senza risolverle.
È la dea che fa le fusa e che graffia.
È il calore accogliente del focolare e l'indipendenza selvatica della notte.
È la madre amorevole e la cacciatrice implacabile.
È protezione e libertà – spesso in conflitto, eppure in lei perfettamente armonizzate.
I testi antichi la descrivono come "dolce e pericolosa", una formula che ogni amante dei gatti riconosce immediatamente. La mano che accarezza può essere morsa nel momento successivo, non per crudeltà ma perché nella natura felina non esistono compromessi – solo autenticità.
Quando, nel nostro racconto, Bastet libera Granella dalla sua gabbia, non compie semplicemente un atto di liberazione fisica. Le trasmette un'eredità, le ricorda la natura duplice che ogni gatto porta con sé: essere contemporaneamente qui e altrove, visibile e invisibile, parte del mondo e sua osservatrice distaccata.
"Non sono tutti sonnambuli," dice Bastet a Granella mentre osservano gli umani persi nei loro smartphone. "Possono risvegliarsi. C'è sempre qualcuno a vegliare. Ci deve essere."
Queste parole racchiudono l'essenza del ruolo dei gatti nella mitologia egizia: testimoni silenziosi che attraversano la superficie della realtà, custodi di soglie invisibili, guardiani che osservano il sonno dell'umanità senza giudicare – ma sempre pronti a guidare chi è disposto a vedere oltre.
Granella, con la sua incertezza, la sua fragilità, la sua fame costante – non solo di cibo ma di comprensione – incarna perfettamente questa eredità. Cammina tra i mondi non perché è forte, ma perché è autentica. Proprio come Bastet, che non era venerata per la sua perfezione divina ma per la sua natura imprevedibile e reale.
C'è qualcosa di misteriosamente eterno in un gatto che si stiracchia al sole. Un gesto che collega il presente ai templi di Bubastis, alle dune del deserto, alle prime case dove i gatti decisero – perché fu una loro decisione, mai dubitatene – di condividere lo spazio con gli umani.
Bastet non è mai stata solo una divinità del pantheon egizio. È stata la cristallizzazione di un'intuizione profonda: che nei movimenti eleganti e precisi dei felini si nasconde una saggezza più antica delle piramidi. Che nei loro occhi che cambiano con la luce si cela una verità che sfugge alle parole.
Quando vediamo Granella attraversare specchi e tempo, stiamo assistendo alla continuazione di quella danza iniziata millenni fa nelle sabbie dorate del Nilo: la danza di una creatura che cammina leggera tra opposti mondi, che osserva senza essere vista, che conosce senza rivelare.
E come Bastet sussurra a Granella prima di svanire nel calore tremolante del tramonto: "Il viaggio è un ciclo senza fine. Passato e futuro sono menzogne."
Le uniche verità sono quelle che un gatto trova nel momento presente: un raggio di sole in cui acciambellarsi, un mistero da inseguire, una carezza da accettare con regale condiscendenza.
O, naturalmente, un pasto da consumare con tutta l'attenzione che merita.
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*"Cosa sogni quando non ci siamo?"*